Potrò apparirvi romantico e, con buona dose di probabilità, molti di voi non si addentreranno più di tanto nel leggere questa mia storia, ma per quanto la vita di oggi sia frettolosa, piena di stress e superficiale, desidero lasciare un indelebile ricordo della mia avventura, giusto per coloro i quali, nei prossimi 10 minuti, riusciranno a tenere la fretta per un attimo in disparte. Ma anche per tutti coloro che inseguono un sogno.
La vita di oggi è anche piena di “Figli di papà”, persone, non so se fortunate o meno, che hanno costruito la loro carriera grazie all’aiuto del “papi”. Di certo, quest’ultimo, non è quasi mai sufficiente: senza il talento e la pervicacia, non si va avanti granché. Con una punta d’orgoglio rivendico di esser riuscito a costruire qualcosa senza l’aiuto del papi. Bensì con l’aiuto di “mami”, anche se fondato su cose molto più fortificanti e solide del semplice denaro.
Vi racconto cosa accadde prima di Mercoledì 7 gennaio 1998, giorno in cui il sottoscritto e Alberto Schirò aprimmo la porta della neonata Preludio e portammo giù due oggetti: un computer MAC, un telefono.
In realtà eravamo in compagnia anche di alcune chitarre e un vecchio Atari, che per qualche tempo ci permise di sopperire alle scarse conoscenze che avevamo dei software audio del MAC.
Non stavamo inventando nulla di nuovo, nulla che potesse lontanamente paragonarsi al garage nel quale nacque la Apple. Tuttavia partimmo veramente da zero con la sola (iniziale) idea di offrire jingle pubblicitari alle agenzie.
Da cosa nasceva questo desiderio? neolaureato in Economia & Commercio decisi di affrontare la prima esperienza lavorativa tra le mure domestiche, aiutando mia madre che aveva una propria attività di “head hunting” nel settore della comunicazione. Lei era la mitica (a detta di tutti) Marta De Vita, all’epoca un vero faro per il mondo della comunicazione; un riferimento unico per chi cercasse un account arabo coi capelli verdi o per chi desiderasse abbandonare l’agenzia delle merendine a favore di quella delle automobili. Questa cosa mi consentì da un lato di ritagliarmi del tempo libero per quella che era la mia passione, la musica; dall’altro di “scrutare dall’alto” il misterioso mondo dell’Advertising milanese. Era il 1990 e abitavo proprio di fronte all’ufficio. I tempi potevano definirsi “morti” senza alcuna ombra di dubbio. Volendo, persino a pranzo potevo tornarmene a casa per studiare e la sera, qualche minuto dopo le 18:30, ero già con la chitarra in mano o con gli spartiti del coro.
E’ facilmente comprensibile come, dopo un corso di studi incentrato sulla Comunicazione e sul Marketing (scrissi una tesi sul settore automobilistico), dopo alcuni anni in perlustrazione del mondo del lavoro pubblicitario e, soprattutto, dopo aver portato a termine anche gli studi in Conservatorio (Chitarra classica), l’idea di concretizzare il connubio tra studi economici e la musica non potesse essere una naturale e istintiva conseguenza.
Tuttavia, malgrado passassi gran parte del mio tempo ad organizzare concerti, e quindi la musica cominciasse a essere sempre più presente nella mia vita lavorativa, non mi ritenevo ancora in grado di affrontare “tecnicamente” una produzione musicale pubblicitaria. Questo finché non incontrai le persone giuste: Danilo Lorenzini e Alberto Schirò.
Fu quello il momento in cui intuii di poter finalmente recidere il cordone ombelicale.
Danilo Lorenzini è un compositore milanese molto stimato, docente del Conservatorio di Milano. Scriveva in quel periodo le musiche per la compagnia marionettistica Carlo Colla & Figli, aveva lavorato in passato per Franco Battiato, produceva numerose opere di musica contemporanea tonale e collaborava con Roberto Cacciapaglia dello studio Glance alla realizzazione di jingle pubblicitari. Erano ancora gli anni in cui la musica delle pubblicità veniva realizzata “ad hoc”, senza uso di computer o di campionatori, ma affidando a un compositore come Danilo l’opera di “orchestrare”.
Alberto Schirò, dal canto suo, era già all’epoca un ottimo musicista avvezzo a frequentare Navigli e Brera nei mesi invernali, per poi sparire per 3 mesi in lontani villaggi turistici nei mesi estivi. Me lo presentò un mio collega di studi chitarristici, nonché compagno (non di classe) del Liceo Donatelli: Francesco Sorichetti. Bussarono alla mia porta nell’autunno del 1994 per sottopormi alcuni arrangiamenti vocali scritti da Alberto. L’idea era quella di formare un gruppo vocale assieme a Paolo Bellodi, con cui essi suonavano nei locali. Poiché nel loro repertorio i punti di forza erano le armonizzazioni a tre voci di Beatles, Pooh, Battisti o Bee Gees, pensarono bene che si potesse fare un tentativo di eliminare qualsiasi strumento. In realtà l’idea iniziale non era propriamente “a cappella”: ci si ispirava più a gruppi come i Platters, i Manhattan Transfer o il Quartetto Cetra, utilizzando alcune basi pre-impostate realizzate da Alberto. In ogni gruppo vocale che si rispetti l’estensione delle voci è fondamentale e Francesco intuì che il suo direttore di coro, cioè io, potesse essere un tassello importante per la formazione del nuovo gruppo vocale. Questo perché insegnavo le parti alle voci femminile esattamente nella loro ottava, cioè in falsetto. Anche Paolo era dotato di un ottimo falsetto, ma io ero più acuto e leggero. Oltre al coro, negli anni che andavano tra il 1988 e il 1992, un grande interesse mi veniva destato dalla musica Country Bluegrass. Suonavo il banjo ed ero letteralmente affascinato dal vocalese e dal gospel bianco. Le band bluegrass, durante i loro concerti, abbandonavano per un attimo gli strumenti ed attaccavano a cantare gospel solo con le voci. I miei occhi erano letteralmente sbarrati e le mie orecchie non si perdevano neanche un dettaglio di quelle spettacolari, anche se semplici, armonizzazioni. Iniziai a bazzicare i vari negozietti di cd alla ricerca di etichette americane di musica Bluegrass e non c’era album che io acquistassi senza che fosse contenuto almeno un brano vocale. Si può intuire come la proposta di Francesco e Alberto si sposò col sottoscritto come il cacio sui maccheroni.
Individuato anche un quinto elemento, Luca Baiocchi, iniziammo a fare le prove nei primi giorni del mese di dicembre del 1994 e fu così che nacquero gli Alti e Bassi.
Alberto realizzava tutti gli arrangiamenti vocali, ma, grazie al suo Atari, produceva anche tutte le basi. Con una disinvoltura e una maestria tale, che cominciò a balenarmi un’ideuzza che restò comunque sopita per un po’ di tempo.
Proprio in quel periodo accadde che il M° Antonio Eros Negri, mio insegnante di direzione di coro e allievo di Lorenzini, pensò bene di suggerire a Danilo di convocare gli Alti & Bassi per la realizzazione di uno spot pubblicitario. Si trattava dello spot per “Pagobancomat” con una cover del brano “When you’re smiling” prodotta dallo studio di Cacciapaglia. Lorenzini aveva curato tutta l’orchestrazione strumentale e scritto le parti vocali, che prevedevano anche una voce femminile (Roberta Gambarini).
Accolto dal giovane assistente di Cacciapaglia, Stefano Tucciarelli (al quale sono legato da profonda gratitudine perché in seguito si rivelò determinante nel suggerirmi le prime politiche commerciali), entrai nello studio di via Vivaio e fu per me un’esperienza sconvolgente.
Uscii da lì con una convinzione: è questo ciò che voglio fare! Ho ancora dei flash: il direttore creativo dell’agenzia, il fonico, Lorenzini che ci dava le istruzioni, le varie prese, la grande cantante jazz al mio fianco, la scelta, il mix, il prodotto finale, lo spot finalmente in TV.Fu come ricevere un forte pugno.
Tornai qualche mese dopo, in via Vivaio, perché Lorenzini mi convocò per dare voce cantata al protagonista de “Il Pifferaio magico”, della compagnia Carlo Colla e Figli. Assistetti anche alle registrazioni degli attori, che impersonavano i vari personaggi e la mia convinzione prese sempre più forza. Conobbi Claudio Beccari, Gianni Quillico, Marco Balbi e Adele Pellegatta, che in seguito sarebbero stati i primi speaker Preludio.
Domandai a mia madre se non conoscesse qualcuno che potesse aver bisogno di qualche jingle originale. Andai a parlare con due creativi i quali non esclusero un possibile coinvolgimento. Nel pieno dell’entusiasmo proposi ad Alberto di tentare: proviamo a chiamare tutti i creativi e cerchiamo di farci dare dei brief. Non fu così semplice e mia madre non vedeva di buon grado una distrazione dal lavoro di tutti i giorni.
Da lei non mi occupavo di selezione, ero troppo giovane. Decisi di aiutarla sul versante della ricerca. In che modo? con un’idea, per allora, straordinariamente innovativa. Era il 1990 e, fresco fresco di laurea, iniziavo ad appassionarmi al computer: un portentoso MAC SE30 era il primo personal computer casalingo ad ospitare un programma di database. Il software in questione si chiamava FileMaker e ben presto mi resi conto che il suo linguaggio era per me di facile comprensione. Costruii per mia madre un potente database che altro non era che l’antesignano di quello che avrei progettato più tardi in ambito musicale (Preludio Music Library). Il database per mia madre consentiva di memorizzare tutte le informazioni dei candidati in 4 schede: dati anagrafici, studi e competenze, esperienze lavorative, informazioni varie (come ad esempio retribuzione, interessi, ecc..). Tutte cose oggi all’ordine del giorno, ma immaginatevi nel 1990! Di fatto si ritrovò ad essere l’unica “cacciatrice di teste” in possesso di un simile strumento. Permetteva di individuare immediatamente un candidato in possesso dei requisiti necessari, anche tra migliaia e migliaia di curriculum (non è sbagliato: curriculum al plurale in italiano resta invariato. Curricula si dice se stai parlando in latino, ma in italiano le regole delle altre lingue non si applicano, altrimenti diremmo i bars, i films, i referenda).
Tornando alla fase “ricerca brief” una concreta possibilità che mi offrì mia madre fu di mettermi in contatto con una società che offriva consulenza musicale in ambito pubblicitario. Non erano come Cacciapaglia, perché non avevano lo studio, ma il loro compito era quello di fare da tramite tra il cliente e i musicisti. Affidavano l’incarico di volta in volta a musicisti diversi, sulla base del tipo di lavoro necessario.
La società si chiamava “Vetriolo” e il suo fondatore, Bruno Esposito, era famoso per avere creato una schedatura “per testo” di tutte le canzoni. Anche questo oggi farebbe ridere i polli, ma per l’epoca era una risorsa straordinaria per qualsiasi creativo che cercasse la parola “fiore” o “cielo” all’interno di una canzone.
Esposito ci diede un paio di incarichi. Per la caramella Sula (ricordo ancora lo slogan: Sula copia la natura) e per le calzature Bata. Fu un flop in entrambi i casi e la cosa mi fece molta rabbia, perché mi ero fatto l’idea che i committenti non avessero capito la genialità dell’arrangiamento di Alberto. Col senno di poi e con l’esperienza maturata in questi anni posso con certezza affermare che le svariate versioni che avevamo prodotto per Vetriolo… non ci azzeccassero minimamente col brief richiesto dai creativi, ma furono determinanti per scatenare in noi la volontà di aprire un centro di produzione musicale indipendente.
Proprio in quei giorni Lorenzini stava fondando, con i suoi “adepti” Giuseppe Azzarelli e Paolo Sportelli, un laboratorio per la “ricerca sul suono” (LARiS). L’idea mi piacque e pensai che potesse essere un buon “positioning”. In sostanza, per contrastare i vecchi soloni musicisti dell’oligarchia pubblicitaria era indispensabile presentarsi in un modo nuovo. In accordo con Lorenzini, quindi, si pensò di unire le forze: da un lato lui avrebbe garantito, con la sua esperienza e con le sue competenze l’assolvimento di tutte le funzioni di composizione e orchestrazione, Alberto di tutti gli aspetti tecnici di programmazione e il sottoscritto sarebbe stato una sorta di “commerciale”, sia per procacciare nuovi lavori che per mantenere i contatti con i clienti. Insomma, il creativo, il producer e l’account!
In una prima fase trovammo un piccolo spazio seminterraneo in zona Lambrate. Lo chiamavamo “dal topo Vorro”, dal cognome dell’affittuario che ci sub-affittava un locale di 25 metri quadri. Non era il massimo, né come zona né come spazio: pareti spoglie, tubi passanti, scorrere di liquami di non meglio precisata provenienza, lato destro del topo-Vorro destante sospetti sulla reale natura della sua attività.
Acquistammo un MAC da dodici milioni di lire, pagandolo a rate. Installammo i primi software di elaborazione digitale che iniziavano a svilupparsi proprio in quegli anni: Cubase e diversi plug-in, senza sapere minimamente cosa fossero, come funzionassero e a cosa servissero. Alberto preferiva continuare ad utilizzare l’Atari per le sue programmazioni, ma se avessimo dovuto registrare qualcosa il MAC sarebbe stato assolutamente indispensabile.
Quando arrivò il primo incarico dopo un primo istante di incredulità, ci rendemmo immediatamente conto di come sarebbe stato impossibile affrontare qualsiasi produzione in quelle condizioni. Non era minimamente pensabile di poter registrare dal topo-Vorro. Chiamai al telefono l’amico Mimmo Seccia, che allora, in realtà, conoscevo da poco, in quanto titolare del Gimmi’s, il locale di via Bellini. Mimmo era un musicista, ex clan di Celentano, e non ci mise molto ad intuire che quei 5 ragazzotti, che si presentarono una sera da lui facendogli ascoltare un brano dei Manhattan Transfer, avevano delle buone potenzialità. Offrì agli Alti & Bassi la possibilità di esibirsi in alcune serate e la formula ebbe successo. Addirittura gli venne in mente di provare a presentare un nostro brano a Sanremo e ci portò nel seminterrato del Gimmi’s dove c’era, inaspettatamente, una sala d’incisione. Era gestita da Vittorio, del quale Alberto, per anni, ci avrebbe deliziato con la sua storica imitazione, tra tante. Peccato che nel 1995 vinsero al festival di Sanremo i Neri per caso, altrimenti forse avremmo avuto qualche chance anche noi di approdare in riviera dei fiori. Qualsiasi cosa a cappella fosse prodotta in quegli anni, infatti, veniva irrimediabilmente bollata come “Neri per caso”. Tant’è vero che decisi di trascrivere due loro arrangiamenti e il semplice fatto di eseguirli alla loro maniera, bisogna ammetterlo, ci aprì parecchie porte. Soprattutto quelle dei ristoranti che accettavano l’operazione sconto, grazie alla cantata finale durante la quale gli avventori si sorprendevano nel sentire i Neri per caso dal vivo, anche se… non gli somigliavano per niente!
Insomma, era evidente che se volevamo renderci indipendenti, non si potesse chiedere aiuto né a Vetriolo, tantomeno a Cacciapaglia. Così chiamai Mimmo e gli chiesi se potevamo effettuare la registrazione da lui.
Erano ancora i tempi dell’Adat e del Dat e tra un passaggio e l’altro non so cosa accadde, ma sta di fatto che quando il nostro lavoro fu collegato alle casse del Teatro Filodrammatici l’allora regista Claudio Beccari… andò su tutte le furie. Era tutto distorto. Non di molto, di poco. Ma si sentiva. Eccome! e non era mai accaduto prima. Accadde proprio con noi. Le mie certezze, lo devo ammettere, iniziarono a vacillare, ma per fortuna non mollai. Chiamai Giorgio Marin, colui che ci vendette il MAC, e nel suo laboratorio ci mostrò che le onde campionate erano tutte tagliate in alto già nella registrazione di partenza. Un errore dello studio, quindi! Chiamammo il fonico di Mimmo che venne dal topo-Vorro e malgrado non riuscisse a capacitarsi su cosa fosse successo in qualche modo riuscì a riparare parzialmente all’inconveniente, permettendo allo spettacolo di andare in scena. Fu un’esperienza devastante e per Alberto, abituato da anni al “quieto vivere”, fu un duro colpo.
Tuttavia ci riprendemmo presto, incrociando le nostre prime attività con quelle degli Alti & Bassi. Avevamo intrapreso da poco le registrazioni del primo album degli Alti & Bassi, che si sarebbe intitolato “Il Mito Americano”. Ci propose questo titolo Filippo Del Corno, altro compositore allievo di Lorenzini, che, su incarico de I Pomeriggi Musicali, ci organizzò un prestigioso concerto all’Umanitaria. Ricordo ancora Virgilio Savona e Lucia Mannucci in prima fila. Dedicammo loro la canzone “Quando canta Rabagliati” e quando comunicammo al pubblico che l’avremmo dedicato a loro, che erano lì, i prima fila e nessuno se ne era accorto, tutto il pubblico si alzò in piedi in un applauso che mi apparve come interminabile. Mi commossi, pensando a quanto fossi fortunato a vivere da protagonista quel momento. Lo spettacolo si intitolava “Il Mito Americano” perché, sull’idea di Del Corno, svariava tra diversi generi e autori americano: spiritual, gospel, Gershwin, Duke Ellington, ma anche D’Anzi e Carosone, che per primi in Italia portarono lo swing.
Il disco, dopo aver scartato un polverosissimo studio in zona Linate (che però ci fece comprendere l’importanza dell’immagine) lo registrammo presso il “Mondial Studio” di via Tortona dove il signor Paolillo ci ripeteva, con finezza inenarrabile, che era importante “non fare le cose alla porca puttana”.
Scegliemmo di registrare tutti assieme e solo successivamente comprendemmo il significato delle sue parole, che effettivamente diventarono un tormentone spesso ripetuto. Si, perché se registri tutti assieme l’intonazione deve essere perfetta, perché hai i rientri in ogni microfono. Poiché non lo era praticamente mai, la fase della scelta delle prese, che ci eravamo equamente suddivisi io, Alberto e Francesco, si rivelò costantemente all’insegna del …“porca puttana”.
Ci salvò un mago del computer, colui che, a quell’epoca, sembrava essere il numero uno dell’editing e che scovò Francesco in quel di Vedano al Lambro, grazie probabilmente al passaparola. Si chiamava, e si chiama tuttora, Paolo Siconolfi.
Il lavoro di editing e di post-produzione fu una mazzata, come si dice in gergo, ma come sempre dalle cose che appaiono negative, ne nascono di positive. Quei mesi chiusi nel seminterrato della palazzina di Paolo, a Vedano al Lambro, furono il più efficace e forse meno costoso… corso per imparare ad usare Pro Tools! Involontariamente Siconolfi ci rivelava tutti i suoi trucchi, i suoi segreti. Godeva sadomasochisticamente nell’affrontare ogni difficoltà come fosse una sfida. Si rivolgeva alle forme d’onda rimboccandosi le maniche ed esclamando: “A noi!”. Se qualcosa, malgrado i suoi interventi preliminari, non funzionava a dovere, si ritrovava a comunicare alla traccia audio: “Io e te dobbiamo parlare!”.
A fine 1997 ci si presentò un’occasione: un nostro caro amico, Maurizio Cammarata, agente immobiliare che in un primo momento sembrava potesse essere un terzo socio della Preludio, ci segnalò un’inserzione interessante di un seminterrato in Viale Monza. Pur di scappare dal topo-Vorro si era pensato di andare nel seminterrato dell’agenzia di Maurizio, che era anche in una zona molto bella: Milano 2. Forse più residenziale, che business. Ma la titubanza di Maurizio si protrasse troppo a lungo.
Andammo così a visitare questo seminterrato che, a quanto ci disse l’intermediario della proprietà, il rag. Merlo, era stato in precedenza una scuola per DJ e negli ultimi anni una scuola di danza. Non a caso aveva le finestre interne tipiche delle sale d’incisione e gli specchi alla parete. Malgrado ciò ci sembrava perfetto. Certo, l’affitto mensile ci spaventava non poco. Quanto avremmo potuto resistere se non fossero arrivati lavori?
Anche in questo caso ci salvarono due amici: Maurizio Andreoni e Simone Cassanmagnago. Entrambi due appassionati desiderosi di esprimere il loro ego attraverso il canto. Il primo su repertorio italiano e il secondo, mio storico allievo di chitarra, su pezzi suoi. Ci confermarono che avrebbero registrato con noi i loro lavori, garantendoci quella entrata che ci consentiva di pagare l’affitto e anche le prime rate del MAC.
Mancava però il materiale per presentarci come si deve.
Bisognava trovare un grafico. Decidemmo il nome della società e dal brain storming saltò fuori il nome di PRELUDIO: era italiano, musicale, semplice, memorabile, suddivisibile in due suffissi, PRE e LUDIO, ben identificabili con i due soci, e soprattutto non registrato da alcuno nel settore dell’intrattenimento.
Chiamai così un mio compagno di Università che, dopo la laurea, aveva aperto un laboratorio di grafica in via Lomellina. Fu un disastro! qualsiasi proposta che ci sottopose fu da noi irrimediabilmente bocciata, vuoi per la presenza delle scontatissime chiavi di violino, delle banali note musicali o di strabilianti, in senso negativo, dischi volanti pentagrammati attorno a pianeti riproducenti il nome della società. Da piangere.
Fu allora che ci fu segnalato da mia madre un art che, a sentir lei, poteva essere la persona giusta per aiutarci. Si chiamava Roberto Pavan (suo figlio Simone, ora, è l’attuale fonico di Preludio, in carica per merito e non per raccomandazione) e ci progettò il logo con la lira e il sottotitolo Music Emotion Research. In accordo con Lorenzini utilizzammo l’approccio della Ricerca sul Suono come positionning e inserimmo nella brochure quasi tutti i lavori, che di fatto, aveva realizzato Lorenzini, più alcune piccole cose nostre, per alcuni… villaggi turistici! sob!
La brochure era molto bella, creativa e poteva attirare l’attenzione, e così fu. Ormai era tutto in discesa. Decidemmo così di lanciarci nell’avventura e sia io che Alberto affrontammo una difficile decisione: abbandonare i nostri lavori per iniziare a tempo pieno a lavorare per PRELUDIO.
Torniamo così a quel mercoledì 7 gennaio 1998 da cui è iniziata questa mia storia, quando nel seminterrato di Viale Monza 169 entrarono due ragazzi volenterosi, probabilmente incoscienti, ma forse anche per questo fortunati. Si perché quel giorno accadde qualcosa di unico.
Era buio, le luci flebili. Le pareti erano ricoperte da un perlinato scuro e opprimente. Lo spazio era silenzioso. Attaccammo due spine: quella del computer e quella del telefono.
C’era silenzio. Non c’era nessuno al nostro fianco, tutti contro a darci dei matti.
Alzai la cornetta e schiacciai i tasti del primo numero di telefono della prima agenzia di pubblicità.
A volte i sogni nel cassetto si realizzano. Se lo vuoi, se ci credi, se insisti. Con passione e coraggio.
Iniziò la nostra avventura.
Era nata PRELUDIO!
© Preludio s.r.l. – Andrea Thomas Gambetti – 3 Dicembre 2013